Il friulano, il siciliano, il sardo, sono dialetto o lingua? Sotto il profilo politicosociale, “lingua” è quella ufficiale della nazione: quella, per intenderci, della scuola, del foro, dei giornali, della televisione... Quella di cui tutti abbiamo bisogno per crescere, per informarci, per allargare la nostra cultura, per realizzare ogni forma di apertura sociale. D'altra parte, anche il dialetto, come ogni strumento espressivo, è una lingua: con qualche limite certamente, ma lingua è. A cominciare dall'attitudine artistica: ogni pretesa di superiorità della poesia in lingua italiana su quella dialettale (e viceversa) è assurda. Come un Manzoni a Milano senza Porta, o come una cultura veneta con Goldoni ma senza Marin, Zanzotto... Qual è la condizione dei dialetti, oggi in Italia? Indubbiamente grama, per via di una metamorfosi in atto che li porta ad una graduale italianizzazione. Il grande poeta di Sant'Arcangelo di Romagna Raffaello Baldini rileva come nel suo dialetto a “stasòun bona” si preferisca ormai “primavera”, a “rinfrischeda” il più moderno “autònn = autunno”. Eppure la comunicazione dialettale, con la sua vivacità, può rappresentare una via d'uscita per liberarsi da una lingua di plastica, da un italiano che, come tutte le lingue omologate dai mass-media, intristisce, appiattendosi in un frasario colmo di stereotipi, frasi fatte, vuote. Un italiano insomma da rivedere. E sono tanti quelli che intravedono nelle parlate locali la possibilità di una lingua più personale, più umana. E' proprio questo carattere di necessità che autorizza e incoraggia la richiesta di dialetto. Un'altra ragione è quella di salvaguardare le tradizioni come insostituibile patrimonio culturale del passato, specie oggi che solo l'insignificanza ha sostituito le antiche certezze e ideologie. Di qui le ricorrenti proposte regionali e parlamentari per l'insegnamento del dialetto nelle scuole: ultima una legge per la tutela della lingua friulana, presentata dall'assessore regionale all'Istruzione Roberto Antonaz, che non ha mancato di sollevare perplessità e obiezioni. A cominciare dall'esigenza che difesa e promozione di dialetti e lingue minoritarie non si risolvano a scapito dell'insegnamento dell'italiano, un bene comune faticosamente conquistato e meritevole di approfondimento in tutti i suoi registri e livelli. E poi, quale varietà locale insegnare? Campidanese, logudorese o sassarese in Sardegna? Quale salentino, quale piemontese ufficializzare? Sulla base di quale norma grammaticale? Ma, a prescindere da queste considerazioni, esistono ancora un friulano, un bergamasco, un bolognese autentici, non trasfigurati dalla mescolanza con l'italiano? E quali aspetti delle nostre esigenze espressive affideremo al dialetto? L'affettivo, il familiare, il pratico, ma non sicuramente lo scientifico, il tecnico, il filosofico... Parliamolo il dialetto, infiliamolo nei nostri discorsi, provandoci anche gusto: ma è proprio necessario impararlo a scuola? Non tutto si può dire, non tutto si può fare col dialetto. Una lingua nazionale è sufficiente a soddisfare i bisogni intellettuali di un popolo, un dialetto sicuramente no.
Alfredo Prologo
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